E’ difficile dire se Neversong è per tutti, un gioco da un fascino particolare, misterioso, affascinante e cupo così come pochi. Quello in cui il gioco riesce è far pensare il giocatore che, se nel mood giusto, viene risucchiato da un vortice di sensazioni, una tempesta emotiva che lo tiene incollato allo schermo fino alla fine di questa breve avventura. Ma Neversong non è solo questo: è anche un’esperienza ludica che, anche se tutt’altro che originale e innovativa, è quantomeno ben riuscita e garantisce al giocatore quell’esperienza appena necessaria per finirlo e lasciarsi andare ad un “beh, bello”.
Si tratta di un adventure platform bidimensionale sviluppato dalla collaborazione tra Serenity Forge e Atmos Games, che vede solo oggi la luce su Xbox One e PS4 dopo essere stato già ben accolto su Steam a metà dello scorso maggio. Il titolo era conosciuto come “Once Upon a Coma” (trad. C’era una volta il coma), durante il periodo di sviluppo, cambiato poi in Neversong, decisamente più elegante. In questa avventura ci caleremo nei panni del giovane Peet all’interno di una sorta di realtà onirica creata dalla sua testa durante il coma.
Sì, coma. Questo giochino che, a prima vista potrà essere bollato come banale, tratta un argomento delicato che sicuramente riesce a toccare le corde giuste a chi ne ha, purtroppo, più familiarità. E’ proprio all’inizio che l’autore del titolo ha voluto quasi dedicare l’avventura di Peet a chi conosce questa realtà da vicino, ricordando al giocatore che “non è solo”.
Cupo e commovente
Peet è un giovane orfano del villaggio di Red Wind che ha visto la sua amica, Wren, essere rapita dal terrificante Dottor Smile: non un medico o un genio del male, ma un’oscura figura col volto pallido e uno stetoscopio al collo. Vedere Wren tra le grinfie di quella creatura è stato un colpo troppo grosso da reggere per il nostro protagonista, che collassa in uno stato comatoso. Quello che vivremo da questo momento in poi sarà ciò che la mente del povero ragazzo partorirà dopo quel trauma. Nella sua testa Peet è decisamente più impavido e forte di quanto evidentemente non si sentiva nella vita reale e, grazie a questo vigore, si sente in grado di investigare sull’accaduto e arrivare fino in fondo alla faccenda, con la speranza di ritrovare e riabbracciare la sua amica.
Questo gioco è breve, ma non per questo non riuscirà ad intrattenervi e a lasciarvi un’esperienza degna di essere ricordata. A primo impatto, sicuramente, lo stile grafico vi incuriosirà così come lo faranno le ambientazioni. Le forme, i paesaggi e i colori scelti per dar vita a questo strano mondo onirico sono angoscianti così come la sua trama, ma nascondono un fascino quasi ipnotico che mi ha spinto a continuare, tenendo sempre alto il mio interesse e la mia curiosità di scoprire cosa si nasconde nella successiva area di gioco.
Un Gameplay sufficiente, divertente ma povero
Per quanto riguarda il gameplay tutta la produzione non fa leva su delle meccaniche complesse, anzi. Si parla di risolvere dei piccoli indovinelli o puzzle per ottenere un determinato oggetto che dà accesso al prossimo rompicapo. Per quanto riguarda il combattimento ci troviamo tutt’altro che vicini ad un sistema ambizioso, ma è comprensibile. Il titolo decisamente non è in grado di offrire una sfida a chi preferisce metterci impegno. Ma non vogliamo vederla così. No, perchè con un tema trattato così delicato, sicuramente la produzione ha altri obiettivi da raggiungere. La cosa importante è stata consegnare al giocatore una storia e permettere a quest’ultimo di scorrerla agilmente per due ore della sua giornata. Nonostante questo, un pizzico di varietà e inventiva nello strutturare le boss fight non avrebbe di certo guastato: queste sono altamente ripetitive, tutt’altro che punitive e decisamente troppo intuitive. Per il resto il gameplay è composto dallo scorrimento a destra e a sinistra tra i diversi scenari, alla ricerca di informazioni che spesso troviamo da brevi conversazioni con gli altri orfani del villaggio, ed è proprio qui che ho trovato un piccolo dettaglio che mi ha piacevolmente stupito: il doppiaggio è espressivo, ben interpretato dagli attori che riescono quasi a dare un'anima a quei pupazzi che, a guardarli, proprio non ce l’hanno.
Il nostro Peet potrà contare anche su un semplice, ma efficace, sistema di “miglioramento”. Non si tratta di un level system che “sblocca” abilità o oggetti, ma proprio di un simpatico sistema di acquisizione di oggetti utili allo scopo di affrontare gli ostacoli che si paleseranno proseguendo la storia.