Quella di A Plague Tale: Innocence è un’esperienza videoludica che stona completamente con le produzioni moderne, che mette nelle mani del giocatore una delle storie di gioco più lineari di questa generazione ma che è comunque circondato da un'aura di fascino che mi ha tenuto incollato allo schermo fino all’ultima sequenza. L’ultima creazione di Asobo Studio è un videogioco che riesce ad essere allo stesso tempo adatto a tutti ma che difficilmente potrebbe soddisfare le aspettative di un pubblico abituato a prodotti più originali, caratterizzati da un'identità più marcata, variegati e convincenti. Ma a questo ci arriveremo a breve.
La Storia
Nei panni di Amicia de Rune sono stato catapultato nella Francia Medievale in una delle fasi più buie della storia dell’uomo. Mentre la popolazione viene flagellata dalla piaga della peste nera, sul fronte franco-inglese si respirano le prime fasi di quella che successivamente verrà ricordata come la guerra dei cent’anni. Se già da queste piccole informazioni vi sembra di ritrovarvi in un contesto cupo, sicuramente non migliorerà la situazione sapere che la pittoresca aggiunta di Asobo Studios è quella di sommare a questi fattori una piega dark-fantasy che dà maggior peso alle angosce del videogiocatore. La malattia si incarna in neri fiumi di ratti che investono qualsiasi cosa gli si pari dinanzi, divorando vivi e morti senza alcuna distinzione.
La forza naturale attribuita alla piaga del gioco supera i confini del realistico e diventa la minaccia più temibile durante tutto il corso della nostra avventura. Già da queste piccole informazioni è facile intuire che il progetto possiede una direzione artistica che è riuscita a rendere l’idea, mostrando allo stesso tempo delle ambientazioni credibili e storicamente accurate assieme ad elementi che spezzano e contrastano questi concetti senza stonare con essi in modo eccessivo. Questo, senza ombra di dubbio, si rivela uno dei punti forti di tutta la produzione.
La nostra protagonista però non dovrà fare i conti solamente con i milioni di ratti che infestano il mondo di gioco, ma anche con i soldati dell’Inquisizione e i loro piani segreti che comprendono, sfortunatamente, la cattura e l’esecuzione di una parte della famiglia de Rune. Dovremmo fare i conti con una situazione familiare difficile e con i pericoli legati al sangue de Rune, passando per tematiche delicate come la perdita dell’innocenza in un contesto così violento e crudele. Amicia, dal canto suo, non nasconde mai il suo coraggio e la sua fame di grandi gesta, caratteristica che la aiuteranno non poco ad affrontare le insidie e a renderla il personaggio più carismatico della produzione. La famiglia di Amicia, però, cela un oscuro mistero, che verrà svelato, legato alla vita del giovane Hugo, fratello minore della nostra coraggiosa protagonista alla quale ne viene affidata la protezione. Questo, dopo aver vissuto lontano da ogni cosa, relegato in alcune stanze della grande residenza dei de Rune e a contatto con solo una manciata di persone, tra cui la madre, si ritroverà a fare i conti con il mondo esterno e a stare a stretto contatto con una sorella con la quale non ha mai stretto un rapporto fraterno.
La storia si sviluppa alternando fasi più incalzanti con altre che invece lasciano al giocatore tutto il tempo di pensare ed organizzarsi. Lo stile della narrazione è profondamente ispirato a titoli di vecchio stampo, quelli che raccontano una storia in capitoli senza avvalersi della componente open world; scelta che oggi va per le maggiori, non lasciando al giocatore la benché minima possibilità di esplorare o di muoversi oltre percorsi prestabiliti. Ogni capitolo viene ospitato da una mappa di gioco che funge da corridoio tra un capitolo ed il seguente. Il suolo calpestabile non si estende mai eccessivamente e in questo modo viene meno una componentistica legata alla scoperta di luoghi nascosti o lontani da quelli che ci permetteranno di sviluppare la trama di gioco. Tutto sembra essere legato da un filo conduttore invisibile: qualsiasi nostra azione non sarà mai secondaria e qualsiasi oggetto con il quale mi è stato permesso di interagire si è scoperto legato alle meccaniche di progressione. Non fa di certo eccezione il gameplay, decisamente piatto e povero che limita i nostri interventi a semplici azioni obbligatorie.
Un gameplay sicuramente non all'altezza
Che si tratti di truppe inglesi o di centinaia di ratti che graffino il pavimento pronti a saltarti addosso, gli ostacoli alla nostra avventura non saranno mai complessi o in alcun modo difficili da superare. Il titolo invita il giocatore a superare ogni insidia utilizzando la testa, trovando delle scappatoie improvvisate per permettere ad Amicia di fuggire dai suoi inseguitori piuttosto che superare orde di ratti che le bloccano la strada. Ogni “puzzle” sfrutterà la luce di torce e lanterne, alle quali i ratti sono vulnerabili. Alcune fasi permettono di superare la minaccia nemica senza intervenire attivamente, sfruttando delle convincenti meccaniche stealth alle quali però non viene resa giustizia da un’intelligenza artificiale dei nemici piatta e quasi irritante per quanto limitata. Superare i nemici con la violenza non porterà Amicia a differenti conclusioni. Il gioco infatti nè ci punirà nè ci premierà qualora preferissimo un approccio piuttosto che un altro. Le sequenze dove effettivamente ci verrà data una scelta di approccio si contano sulle dita d'una mano. Durante tutto il corso della storia non mi sono mai sentito obbligato a sfruttare le meccaniche stealth piuttosto che un approccio diretto dato che tutti gli ingredienti necessari per la produzione di oggetti utili sono sempre disponibili prima di una zona, quasi come se il gioco stesso mi desse tutto l’occorrente utile per scagliarmi addosso ai nemici usando la violenza. Non sono mai rimasto a corto di sassi o elementi per incendiare torce, spegnerle, illuminare percorsi o uccidere e distrarre nemici. Questo, sommato al livello irrisorio dei puzzle ambientali, ha privato la mia esperienza dell’elemento sfida che avrebbe sicuramente fatto la differenza. D’altronde le azioni che mi sono state concesse sono veramente poche e vanno dalla semplice interazione con leve e meccanismi al lancio di oggetti con la fionda, con la quale Amicia dimostra di essere perfettamente allenata sin dal prologo come a giustificare una mira assistita alquanto invadente che non permette di sbagliare un lancio neanche a volerlo. Ogni piccola aggiunta del mio arsenale arriva esattamente quando la storia ne sente il bisogno, “complicando” gradualmente la varietà di azioni eseguibili in una determinata situazione. Nonostante il gioco mi suggerisse continuamente quale azione effettuare per passare da una fase all’altra, ho quasi sempre avuto l’opportunità di ragionare di testa mia e superare un ostacolo con metodi meno ortodossi, lasciandomi addosso la sensazione di aver sbagliato qualcosa, che “il gioco non voleva io facessi così” (Fuck the System).
Il titolo mette a disposizione anche un tavolo del crafting attraverso il quale è possibile migliorare differenti componenti dell’equipaggiamento di Amicia, ma sono sicuro che se avessi scelto di non migliorare nulla, il gioco mi avrebbe aiutato allo stesso modo a trovare una scappatoia da ogni singola situazione. Per fare un esempio, se non avessi scelto di migliorare la sacca delle munizioni, durante uno scontro avrei sicuramente trovato altri sassi da lanciare addosso ai miei nemici o altri componenti che mi avrebbero permesso di scavalcare ogni ostacolo al proseguimento della mia avventura. Insomma il tavolo del crafting c'è, ma non cambia il gioco o il modo di giocare.
La cosa che più di tutte mi ha affascinato di A Plague Tale: Innocence è l’atmosfera di gioco. La cura di Asobo ha fatto sì che anche solo la storia e le ambientazioni affascinassero il giocatore trascinandolo dal primo all’ultimo capitolo senza lasciargli il tempo di perdersi in fronzoli. Visivamente, il titolo è mozzafiato e non ha nulla da invidiare ad una produzione tripla A moderna. La struttura del gameplay però mi ha fatto storcere il naso e, in un certo senso, mi ha fatto sentire stupido ponendomi solamente sfide irrisorie e rompicapi veramente banali, risolvibili anche interagendo a casaccio con l’ambiente.